Nel sistema di classificazione Yerkes, la sigla cD è riservata alle galassie più grandi. La ‘c’ minuscola indica che la galassia è una supergigante. La lettera ‘D’ indica invece che è circondata da un grande alone di luce diffusa. Ciò vuol dire che le galassie cD hanno diametri immensi, fino a milioni di anni luce, molto maggiori del raggio effettivo, cioè di quella regione centrale più luminosa dalla quale emana il 50 per cento della luce totale che esse emettono.
Le cD sono di solito le galassie centrali di ammassi formati da centinaia o migliaia di galassie, sicché gli astronomi usano spesso questa sigla, ridefinendone il significato originario, come acronimo di central Dominant galaxy (galassia centrale dominante). Ma poiché sono anche le più luminose dell’ammasso di appartenenza, le cD sono indicate anche con la sigla BCG, che sta per Brightest galaxy in a Cluster.
Veri e propri mostri del cielo, queste galassie si formano, secondo la teoria attualmente più accreditata, per via di fusioni successive con galassie minori. Grazie al materiale strappato a queste ultime, diventano nel corso del tempo sempre più massicce e finiscono per “cadere” inevitabilmente al centro dell’ammasso. Le frizioni gravitazionali con altre galassie, infatti, se da un lato consentono alle cD di “ingrassare” smisuratamente, dall’altro sottraggono loro momento ed energia cinetica, che vengono trasferiti ai corpi minori che sopravvivono alla fusione (è lo stesso meccanismo che permette di usare la gravità di un pianeta come una sorta di fionda per scagliare una sonda verso una destinazione lontana). Insomma, le galassie cD si trasformano nel corso di miliardi di anni, per via di fusioni successive, in giganteschi depositi di stelle e gas. Di forma per lo più ellittica, affondate al centro del pozzo gravitazionale dell’ammasso di appartenenza, sono popolate tipicamente da stelle vecchie, hanno una bassa luminosità superficiale e il loro alone è così esteso da rendere difficile agli astronomi determinare dove finisca la galassia e dove cominci il materiale intergalattico dell’ammasso.
Il prototipo per eccellenza di questo tipo di galassia è IC 1101, la galassia centrale dominante dell’ammasso Abell 2029, situato al margine estremo della costellazione della Vergine, proprio al confine con il Serpente.
Il nome IC 1101 deriva dal posto che l’oggetto occupa nel catalogo pubblicato nel 1895 da John Louis Emil Dreyer (Index Catalogue of Nebulae and Star Clusters). Solo nel ventesimo secolo, però, divenne chiaro che si trattava di una lontana galassia e non di una nebulosa. Lo spostamento verso il rosso delle righe spettrali (z = 0,077947) indica che si trova in effetti a una distanza enorme dalla Terra, di poco superiore a un miliardo di anni luce (circa 326 megaparsec, secondo le stime più recenti).
Le cose principali che sappiamo su IC 1101 le dobbiamo a uno studio risalente a un quarto di secolo fa, pubblicato il 26 ottobre 1990 sulla rivista Science. I tre autori Juan M. Uson, Stephen P. Boughn e Jeffrey R. Kuhn, riportarono i risultati dell’osservazione di Abell 2029, compiuta il 20 maggio 1987 con il telescopio da 90 cm del Kitt Peak National Observatory. Il CCD della fotocamera digitale montata sul fuoco del telescopio aveva una risoluzione che oggi fa sorridere, di gran lunga inferiore a quella utilizzata dal più economico dei telefoni cellulari: 512 x 348 pixel. Ma faceva bene il suo lavoro. I tre astronomi acquisirono quella notte sedici immagini parzialmente sovrapponibili di Abell 2029, congiunte a formare una sorta di croce, con nove frame disposti in direzione est-ovest e sette in direzione nord-sud. L’immagine totale, che copriva un’area di 34 × 21 arcominuti, era centrata sulla galassia dominante dell’ammasso, la supergigante ellittica IC 1101. Ogni pixel aveva una risoluzione pari a 0,86 secondi d’arco, corrispondente ( in base alla distanza allora stimata di Abell 2029 ) a un’area di circa 2,5 kiloparsec di lato, cioè poco meno di 8.000 anni luce.
Analizzando attentamente la distribuzione luminosa all’interno dell’ammasso, Uson Boughn e Kuhn si resero conto che IC 1101 era un oggetto davvero fuori del comune. L’attenuazione della luce emessa, partendo dal centro e procedendo verso l’esterno, seguiva in modo pressoché perfetto il profilo di una galassia ellittica con un rapporto di 2:1 tra asse maggiore e asse minore. L’alone galattico continuava a essere distinguibile fino al limite massimo di distanza in cui era possibile separare la luce proveniente dall’ammasso dalla luce diffusa del cielo, e cioè fino a oltre un megaparsec dal centro di Abell 2029. In altre parole IC 1101 sembrava avere un diametro non inferiore a sei milioni di anni luce, circa 60 volte il diametro della Via Lattea. Vale la pena di riportare le parole dei tre autori:
Detto nel modo più semplice, la galassia centrale è indistinguibile dalla luce diffusa che si estende per oltre 1 megaparsec dal centro dell’ammasso. Pertanto quest’“oggetto” è tra le galassie più grandi e più luminose mai osservate. Ha una luminosità di 10¹² L Sun (dove L Sun è la luminosità del Sole in questa banda) e una forma ellittica con un rapporto tra gli assi di 2:1 e il semiasse maggiore di almeno 1,2 megaparsec. Approssimativamente, il 26% della luce totale emessa dall’ammasso proviene da questa galassia gigante.
Insomma, IC 1101 brilla con la forza di almeno mille miliardi di Soli ed emette oltre un quarto della luce totale di Abell 2029, un ammasso di cui fanno parte migliaia di altre galassie, centinaia delle quali sono galassie giganti. Se il centro di IC 1101 coincidesse con il centro della Via Lattea, il suo alone si estenderebbe fino a inglobare le due grandi galassie di Andromeda e del Triangolo, distanti rispettivamente 2,5 e 2,9 milioni di anni luce da noi. Il cielo notturno osservato dall’interno di IC 1101 formerebbe un ininterrotto tappeto di stelle diffuso più o meno uniformemente in tutte le direzioni.
Questa eccezionale galassia è notevole non solo per le dimensioni, ma anche per la gran quantità di materia oscura che, presumibilmente, contiene. Dai calcoli effettuati dagli astronomi, sia utilizzando la velocità di dispersione degli oggetti nell’ammasso sia misurando la distribuzione del gas nei raggi X, è risultato, infatti, che il rapporto tra massa e luminosità in Abell 2029 è di gran lunga sbilanciato a favore della massa.
Per capire come da ciò si arrivi a inferire la presenza di materia oscura, bisogna considerare le indicazioni che provengono dal rapporto tra massa e luminosità in una galassia o in un ammasso di galassie. Usando come unità di misura la massa e la luminosità del Sole, se una galassia fosse costituita interamente da stelle uguali alla nostra, il suo rapporto massa/luminosità sarebbe ovviamente pari a 1. Ma una galassia è costituita da molti tipi diversi di stelle. Stelle giganti e supergiganti hanno un rapporto massa/luminosità sbilanciato a favore della luminosità, ma, in una galassia ellittica molto antica, povera di polveri e di attività recente di formazione stellare come è IC 1101, a dominare sono altri tipi di oggetti: per lo più stelle di sequenza principale di classe M e nane bianche, per le quali il rapporto è, al contrario, ampiamente sbilanciato a favore della massa. (A titolo di esempio, una nana rossa di classe M4V ha in media il 20% della massa del Sole, ma emette solo lo 0,55% della luminosità solare. Una popolazione stellare costituita tutta da stelle di questo tipo avrebbe dunque un rapporto massa/luminosità pari a circa 36:1.)
Tuttavia, l’entità del rapporto massa/luminosità calcolato per IC 1101 è talmente sbilanciato a favore della massa da non poter essere associato ad alcun tipo plausibile di popolazione stellare. In un raggio di 20 kiloparsec dal centro il rapporto è approssimativamente pari a 12 masse solari per una singola luminosità solare osservata. A mano a mano che ci si allontana dal centro di IC 1101 il rapporto cresce rapidamente fino a superare le 100 masse solari per singola luminosità solare oltre i 200 kiloparsec e le migliaia di masse solari per distanze superiori al megaparsec. Una simile quantità di materia, non osservabile né attribuibile a una qualsiasi popolazione stellare, obbliga gli astronomi a colmare il vuoto con l’enigmatico concetto di materia oscura: una materia che mostra i suoi effetti unicamente attraverso la gravità, ma non interagisce in alcun modo con la normale materia barionica. IC 1101 appare letteralmente “foderata” di materia oscura, fino a distanze minime dal suo affollato centro.
Va detto, infine, che al centro di IC 1101 si trova una sorgente radio, PKS 1508+059, che emette due getti in direzioni opposte, i quali, inizialmente collimati, finiscono poi per disperdersi, probabilmente sotto l’influenza di densi filamenti di gas, osservati nei raggi X. La presenza dei due getti suggerisce che al cuore dell’enorme galassia si trovi un buco nero supermassiccio. Tuttavia i dati attualmente disponibili non permettono di rilevare segni diretti della presenza di un nucleo galattico attivo. Se questo esiste, deve trovarsi perciò in una situazione forse temporanea di quiescenza e/o essere pesantemente oscurato dalla materia interposta lungo la nostra linea di vista. In ogni caso, le galassie ellittiche giganti ospitano comunemente buchi neri supermassicci, come l’esempio della vicina M87 dimostra. Se, poi, la massa del buco nero centrale è legata, come diversi studi suggeriscono, alla massa totale della galassia, quello nel nucleo di IC 1101 potrebbe essere un colosso da diversi miliardi di masse solari.